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venerdì 16 aprile 2010

Il Federalismo e il Sud

di Francesco Scrima
Pubblicato oggi su "Conquiste del lavoro".

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Parrebbe che uno dei frutti più gustosi delle elezioni regionali sia il rilancio delle riforme istituzionali: in primo luogo del federalismo, per ora fiscale poi chissà. C’è una legge che lo annuncia da un anno, una commissione parlamentare che ci sta lavorando, uno schieramento politico vincente pronto a partire e andare all’incasso. Restiamo in attesa, sicuri che non saremo interpellati e abbastanza scettici sull’esito finale dell’ operazione.

Di riforme istituzionali si parla invano da un trentennio, sul suo altare si sono sacrificati le intelligenze più vive, le proposte più ambiziose, gli inganni più sfacciati. All’ultimo minuto, qualcuno a turno faceva saltare il tavolo avendo scoperto che il gioco non gli conveniva. Temiamo sarà così anche stavolta. Invocare l’anima dei padri costituenti della Repubblica suona velleitario e grottesco. Gli uomini non sono gli stessi, e non è solo questione di facce ma anche di cervelli e statura morale. Il paese non è lo stesso, poiché cominciano a venire meno quei legami di appartenenza, solidarietà, storia che fanno forte e fiduciosa una nazione e la spingono a riprogettare il futuro.

Da questo punto di vista il federalismo - per altri versi salutare e benvenuto: alzi la mano chi non vuole più chiare responsabilità per gli eletti, più vicinanza delle istituzioni al territorio, più vincoli agli sprechi e all’anarchia fiscale, più attenzione ai servizi locali, più poteri sanzionatori per gli elettori- rischia di dare colpi ulteriori a favore della “disunità d’Italia”, di allungare e sformare ancora lo stivale, lasciando irrisolto il grande nodo del Sud che, ha ricordato Mario Draghi, è “il territorio arretrato più esteso e popolato dell’Unione europea”.
Lo diciamo da tempo come persone che operano nella scuola, ragionando sulle periodiche tabelle di agenzie nostrane e internazionali che vedono gli studenti meridionali ultimi per apprendimento, profitto, sbocchi occupazionali e primi per bocciature, abbandono, dispersione, carenza di basi formative. Queste statistiche però raccontano solo parte della verità ignorando quello che costringerebbe tutti a risalire alle cause di questa situazione: più bassi redditi familiari, meno aule, minori opportunità culturali, maggiore disagio ambientale, amministratori latitanti, incapaci o irresponsabili, e poi ministri distratti o prevenuti, ecc. E’ scorretto ed esiziale usarle per rivendicare il federalismo, con lo specioso argomento che non c’è rimedio ai ritardi del Sud e tanto vale metterlo di fronte alle sue colpe, sperando che rinsavisca.

Il federalismo – che non è una prescrizione medica né un destino inevitabile– non è di per sé una cura. Non lo è sicuramente quel federalismo di bassa lega che, rifacendosi a inconsistenti miti identitari, propone per il personale della scuola forme di reclutamento regionale che privilegiano gli indigeni o un po’ pseudoassimilati con cinque anni di residenza in loco . Per servire a qualche cosa il federalismo deve essere serio. Lo può essere solo se può giovarsi di una classe politica onesta, che non moltiplichi centri di potere e accaparramento delle risorse, e di comunità mature, che coltivino attese eque e compatibili; se è animato da uno spirito di coesione e di reciproco affidamento; se è davvero un nuovo “patto” ( è questa l’origine della parola) di unione. In altri termini, un federalismo “solidale, realistico e unitario” in grado di rafforzare l’intero Paese, “rinnovando il modo di concorrervi da parte delle diverse realtà regionali, nella consapevolezza dell’interdipendenza crescente in un mondo globalizzato”. Un federalismo che, al contrario, “accentuasse la distanza fra le diverse parti d’Italia sarebbe una sconfitta per tutti”. Il richiamo, accolto da uno stordito silenzio, è venuto qualche mese fa dalla CEI nel documento Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, che è pure un pesante atto d’accusa contro le inadeguatezze delle classi dirigenti meridionali, tetragone a qualunque mutamento (“l’elezione diretta dei sindaci, dei presidenti delle province e delle regioni non ha scardinato meccanismi perversi o semplicemente malsani nell’amministrazione della cosa pubblica”) e un appello a un più alto senso civico delle popolazioni perché diventino artefici del loro riscatto.

Per la CEI un sano federalismo, ispirato alla visione autonomista di Sturzo e Moro (condividiamo), sarebbe una sfida per il Mezzogiorno e potrebbe risolversi a suo vantaggio, “se riuscisse a stimolare una spinta virtuosa nel bonificare il sistema dei rapporti sociali, soprattutto attraverso l’azione dei governi regionali e municipali, nel rendersi direttamente responsabili della qualità dei servizi erogati ai cittadini, agendo sulla gestione della leva fiscale”.

Ma, ripetiamo, il federalismo fiscale non sarà sufficiente a sanare il divario di redditi, occupazione, dotazioni civili, infrastrutturali, produttive senza interventi pubblici straordinari e investimenti privati supplementari; senza una lotta, convinta e unanime, alla criminalità e all’emarginazione sociale.
In un simile contesto, la scuola dovrà condurre sino in fondo la sua partita. Non potrà tirarsi indietro, invocando le insufficienze altrui, dovrà evitare ogni tentazione di isolamento e ogni pretesa di innocenza. Dovrà continuare a sporcarsi le mani, chiedendo analogo impegno a tutti i soggetti. Come negli anni dell’uscita dal dopoguerra in cui riuscì essere grande fattore di cambiamento, la scuola è chiamata a riappropriarsi anche nel Sud della sua vocazione democratica e liberatrice, di umile, indispensabile, operaia nella costruzione di cattedrali che non marciscono nel deserto ma fecondano i territori trasformandoli in luoghi di civiltà e di sviluppo.

I giovani saranno i nostri alleati, se è vero che a loro spetta di essere i messaggeri e i testimoni di un nuovo Mezzogiorno.

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