Le forbici intelligenti. Un intervento del Dott. Gabriele Uras sull'attualità scolastica.
LE FORBICI INTELLIGENTI
La metafora è del professor Giavazzi, e dà il titolo ad un recente editoriale del Corriere della Serra, dedicato al decreto legge n. 112, già convertito in legge dal Parlamento. Sì ai tagli alla spesa, scrive il professore, ma nel rispetto di saggi criteri. Ma erano proprio i criteri che mancavano nel decreto, a parte quello della distribuzione dei carichi su tutti i dicasteri, il che equivaleva ad elevare a dignità di criterio la loro assenza. Era facile prevedere che la mancata discriminazione di partenza avrebbe complicato l’attuazione della norma, allorché si sarebbe trattato di procedere ai tagli e di scegliere i settori da sacrificare, perché non sempre è agevole distinguere il necessario dal superfluo, quello che rientra nel diritto allo studio costituzionalmente garantito da ciò che è mero spreco di risorse.
A colmare la lacuna ha provveduto il decreto legge n. 137 del 1° settembre, il quale, all’articolo 4, stabilisce che “le istituzioni scolastiche costituiscono classi affidate a un unico insegnante e funzionanti con orario di ventiquattro ore settimanali”. E’ il ritorno all’insegnante unico, da molti paventato e da altri atteso. Le forbici hanno tagliato, ma sono state intelligenti? Prima di rispondere conviene leggere il passaggio successivo, sempre dell’articolo 4. Vi si precisa che si terrà “comunque conto delle esigenze, correlate alla domanda delle famiglie, di una più ampia articolazione del tempo scuola”. Compaiono i criteri e forse anche l’intelligenza. Quella che manca è l’equa distribuzione dei sacrifici.
Il decreto sui tagli alla spesa, menzionato all’inizio, parlava di “rimodulazione” dell’organizzazione didattica nella scuola primaria, lasciando intendere che le vie del risparmio puntavano diritte sui moduli, i quali, a chi guarda le cose dal di fuori, sembrano uno spreco, perché richiedono tre insegnanti ogni due classi o tre ogni quattro, con un incremento di risorse rispettivamente del 50% e di 1/3 rispetto al maestro unico di un tempo. I moduli furono istituiti nel 1990, dopo alcuni anni di sperimentazione, in sostituzione dei doposcuola e delle attività integrative, didatticamente deboli e improduttivi, utilizzando a fini di crescita e sviluppo le eccedenze di organico derivanti dalla progressiva riduzione del numero degli allievi dovuta al decremento demografico. L’aumento del numero dei maestri consentiva sia l’incremento delle ore di scuola per gli alunni sia il miglioramento della qualità dell’insegnamento, grazie all’approfondimento del metodo e dei linguaggi delle discipline, reso possibile dal fatto che ciascun maestro ne curava solo alcune, e non tutte, come invece accadeva al maestro unico, tuttologo per necessità, non sempre in grado di guidare l’allievo nella ricerca dei significati e nella costruzione dei concetti. Erano una via di mezzo tra la tradizionale scuola del mattino e quella a tempo pieno, e condividevano con quest’ultima l’ispirazione didattica di fondo, basata sull’adesione ai canoni didattici dello strutturalismo pedagogico nordamericano.
Curiosamente, le accuse di spreco sono sempre andate ai moduli, risparmiando la scuola a tempo pieno, tuttavia più opulenta, con due maestri per ogni classe, diffusa soprattutto al Nord e al Centro, assai meno nel Sud e nelle Isole. Da notare che, mentre i moduli sono (ormai, erano) obbligatori, il tempo pieno è sempre stato facoltativo, cioè attuato solo su richiesta delle famiglie. Togliere le 27/30 ore agli alunni dei moduli, mentre se ne lasciano 40 a quelli del tempo pieno, potrà forse apparire una soluzione intelligente, ma giusta certamente non è. E il decreto legge del 1° settembre prevede proprio ciò, in quanto fa salva “una più ampia articolazione del tempo scuola”, purché “correlata alla domanda delle famiglie”. In nome delle famiglie, o meglio di una parte di esse, viene manomessa l’organizzazione didattica dell’unica scuola del Paese che funziona e ci dà prestigio in campo internazionale. La soluzione è chiaramente “nordista” e lascia perplessi. La scuola del Sud e con essa quella sarda, ricche di moduli e povere di scuole a tempo pieno, hanno una ragione di più per temere la falce governativa. Conviene sperare che, quando sarà il momento, qualcuno in Parlamento sappia difendere entrambe le scuole con pari convinzione ed efficacia.
Gabriele Uras
Dirigente Tecnico MIUR in quiescenza
già Presidente IRRE Sardegna.
La metafora è del professor Giavazzi, e dà il titolo ad un recente editoriale del Corriere della Serra, dedicato al decreto legge n. 112, già convertito in legge dal Parlamento. Sì ai tagli alla spesa, scrive il professore, ma nel rispetto di saggi criteri. Ma erano proprio i criteri che mancavano nel decreto, a parte quello della distribuzione dei carichi su tutti i dicasteri, il che equivaleva ad elevare a dignità di criterio la loro assenza. Era facile prevedere che la mancata discriminazione di partenza avrebbe complicato l’attuazione della norma, allorché si sarebbe trattato di procedere ai tagli e di scegliere i settori da sacrificare, perché non sempre è agevole distinguere il necessario dal superfluo, quello che rientra nel diritto allo studio costituzionalmente garantito da ciò che è mero spreco di risorse.
A colmare la lacuna ha provveduto il decreto legge n. 137 del 1° settembre, il quale, all’articolo 4, stabilisce che “le istituzioni scolastiche costituiscono classi affidate a un unico insegnante e funzionanti con orario di ventiquattro ore settimanali”. E’ il ritorno all’insegnante unico, da molti paventato e da altri atteso. Le forbici hanno tagliato, ma sono state intelligenti? Prima di rispondere conviene leggere il passaggio successivo, sempre dell’articolo 4. Vi si precisa che si terrà “comunque conto delle esigenze, correlate alla domanda delle famiglie, di una più ampia articolazione del tempo scuola”. Compaiono i criteri e forse anche l’intelligenza. Quella che manca è l’equa distribuzione dei sacrifici.
Il decreto sui tagli alla spesa, menzionato all’inizio, parlava di “rimodulazione” dell’organizzazione didattica nella scuola primaria, lasciando intendere che le vie del risparmio puntavano diritte sui moduli, i quali, a chi guarda le cose dal di fuori, sembrano uno spreco, perché richiedono tre insegnanti ogni due classi o tre ogni quattro, con un incremento di risorse rispettivamente del 50% e di 1/3 rispetto al maestro unico di un tempo. I moduli furono istituiti nel 1990, dopo alcuni anni di sperimentazione, in sostituzione dei doposcuola e delle attività integrative, didatticamente deboli e improduttivi, utilizzando a fini di crescita e sviluppo le eccedenze di organico derivanti dalla progressiva riduzione del numero degli allievi dovuta al decremento demografico. L’aumento del numero dei maestri consentiva sia l’incremento delle ore di scuola per gli alunni sia il miglioramento della qualità dell’insegnamento, grazie all’approfondimento del metodo e dei linguaggi delle discipline, reso possibile dal fatto che ciascun maestro ne curava solo alcune, e non tutte, come invece accadeva al maestro unico, tuttologo per necessità, non sempre in grado di guidare l’allievo nella ricerca dei significati e nella costruzione dei concetti. Erano una via di mezzo tra la tradizionale scuola del mattino e quella a tempo pieno, e condividevano con quest’ultima l’ispirazione didattica di fondo, basata sull’adesione ai canoni didattici dello strutturalismo pedagogico nordamericano.
Curiosamente, le accuse di spreco sono sempre andate ai moduli, risparmiando la scuola a tempo pieno, tuttavia più opulenta, con due maestri per ogni classe, diffusa soprattutto al Nord e al Centro, assai meno nel Sud e nelle Isole. Da notare che, mentre i moduli sono (ormai, erano) obbligatori, il tempo pieno è sempre stato facoltativo, cioè attuato solo su richiesta delle famiglie. Togliere le 27/30 ore agli alunni dei moduli, mentre se ne lasciano 40 a quelli del tempo pieno, potrà forse apparire una soluzione intelligente, ma giusta certamente non è. E il decreto legge del 1° settembre prevede proprio ciò, in quanto fa salva “una più ampia articolazione del tempo scuola”, purché “correlata alla domanda delle famiglie”. In nome delle famiglie, o meglio di una parte di esse, viene manomessa l’organizzazione didattica dell’unica scuola del Paese che funziona e ci dà prestigio in campo internazionale. La soluzione è chiaramente “nordista” e lascia perplessi. La scuola del Sud e con essa quella sarda, ricche di moduli e povere di scuole a tempo pieno, hanno una ragione di più per temere la falce governativa. Conviene sperare che, quando sarà il momento, qualcuno in Parlamento sappia difendere entrambe le scuole con pari convinzione ed efficacia.
Gabriele Uras
Dirigente Tecnico MIUR in quiescenza
già Presidente IRRE Sardegna.
Etichette: decreto legge, gabriele uras, politica scolastica, razionalizzazione
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